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di Nicola Pezzella
Il sacro catino di Genova, il calice di Valencia, e le molte altre tracce in Europa della reliquia che contenne il prezioso sangue di Cristo.
Con il termine di Graal, si è sempre fatto riferimento ad un oggetto concreto, che alla pari di altri reliquie insigni come la Sindone o la Santa Lancia, è stato cercato, conservato, venerato in molte località, dalla Terra Santa all’Europa.
La questione non è cosi semplice come potrebbe sembrare. Infatti se Wolfram von Eschenbach considerava il Graal come “una pietra caduta dal cielo”, evocando lo smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, altri fanno derivare lapsit exillis da exilium e traducono con “pietra esiliata”. Solitamente il Graal è una coppa, la quale ha il privilegio di conservare il prezioso sangue di Cristo, ma altre volte è un bacile, un catino, ed è servito all’ultima messa celebrata durante l’Ultima Cena contenendo il pane, ovvero il Corpo di Cristo. Il Graal sarebbe, comunque, l’unione di due entità distinte: un oggetto fisico, questo però toccato, bagnato dalle reliquie del Sangue o della Carne di Cristo. Il calice senza il sangue è solo un oggetto: è il sangue di Cristo che lo rende miracoloso.
Ma il sangue senza il calice, può esser considerato, esso stesso una sorta di Graal? In questa accezione si è pensato che tutto ciò che venisse toccato e bagnato da reliquie corporali del Cristo potesse avere la stessa valenza del Sacro Calice. Un distinguo comunque va fatto. Esiste sangue di Cristo, proveniente dalla Passione, e sangue manifestatosi, in un certo senso, attraverso “miracoli eucaristici”, dove il liquido ematico cola da ostie, si materializza in calici, crocifissi e quant’altro. Questo senz’altro è altra storia e non ha nulla a che vedere con le reliquie che si vogliono attribuire agli ultimi istanti della parabola terrena di Gesù. Non esiste comunque un solo calice ritenuto come Santo Graal, ma varie località hanno rivendicato di possederlo. Fra l’altro, si considerava che lo stesso calice che venne usato per l’Ultima Cena fosse servito per raccogliere il sangue colato dalle ferite durante la Crocifissione.
Il culto del Sangue di Gesù
Ancora nella seconda metà dell’8oo, il Manuale di Filotea del sacerdote milanese Giuseppe Riva definiva il sangue di Cristo come “.il mosto misterioso cola cui aspersione l’anima nostra si purificò d’ogni macchia, quella mediazione che è sempre efficace ad ottenere misericordia, più che non fosse il sangue di Abete a domandare vendetta, quella sempre patente da cui ognuno può trarre con gaudio acque di misericordia e di grazia, fiume misterioso che irriga tutta la terra”. San Giovanni Crisostomo lo chiamava “salvezza delle anime”, San Tomaso “chiave dei tesori celesti”, Sant’Ambrogio “Oro prezioso d’infinito valore”, San Bernardo “Tromba che altamente risuona misericordia e clemenza […]”.
Le principali reliquie del Sangue di Cristo vengono venerate, ancor oggi, ad Anversa, Boulogne-sur-Mer, Bruges, Chartres, Doberau, Fecamp, Mantova, Orleans, Palermo, Parigi, Reichnau, Kumu, Weingartner.
Come si sa la reliquia di Mantova risalirebbe all’episodio di Longino, soldato romano della provincia di Isauria, presente alla morte di Cristo, che lo ferì con la lancia nel costato; da questa ferita ne scaturì sangue e acqua. Convertito per questo miracolo, raccolse con una spugna quanto più poté di quell’umore divino, e lo portò a Mantova nel 36 d.C., ove si recò per predicarvi, come primo apostolo, il Vangelo. Ancor oggi è conservato nella chiesa di Sant’Andrea. Nella chiesa di San Basilio in Bruges, città della Fiandra, si venera il Sangue vero e reale di Gesù, raccolto da Giuseppe d’Arimatea e portatovi da Teodorico Alsazio conte di Fiandra nel suo ritorno da Terra Santa l’anno 1143. Niceforo, scrittore greco, attesta che la. Beata Vergine, stando sotto la croce, raccolse in un vaso qualche poco di Sangue versato dal suo Divino Figlio, e lo conservò”. In Marsiglia se ne adora una porzione mescolata con la terra che ne fu inzuppata: è chiusa in un vasetto portatavi da Santa Maria Maddalena. Questo sangue il Venerdì Santo si vedrebbe miracolosamente bollire. In San Giovanni in Laterano vi è un ampolla contenente parte del sangue e acqua che uscirono dal lato di Cristo, forse una parte di sangue di Mantova trasportato a Roma dal papa Leone X.
Il calice di Gerusalemme
II calice che aveva contenuto il sangue di Gesù, raccolto da Giuseppe d’Arimatea, aveva però una caratteristica: era servito al miracolo della transustazione, ed era stato toccato dallo stesso Cristo. Questo calice, dal tempo della Passione, era rimasto in Terra Santa. Il vescovo gallo-franco Arculfo, nell’anno 640, vide e toccò la coppa nel corso di un viaggio in Palestina. Così lo descrive Beda il Venerabile (675-735): “Su! pianoro che si trova dopo il Martyrium e il Golgotha si trova una cappella in cui è deposto, racchiuso in uno scrigno, i! calice del Signore. Si è continuato a toccarlo e da baciarlo attraverso un’apertura praticata nella custodia. Questo calice è d’argento, ha un’ansa da ogni lato e la capacità del sestiario gallico”. Ma già quando i Crociati entrarono a Gerusalemme il calice era scomparso. Se il Graal era questo, dobbiamo considerare che tutti gli altri oggetti ritenuti tali, di materiale diverso da quello descritto dal monaco Adamna o da Beda, devono essere per forza di cose ritenuti dei “falsi”. La questione non si pone, comunque per il Sacro Catino di Genova, che è per sua natura un oggetto diverso dal Sacro Calice e che ebbe una sua determinata funzione.
Il Sacro Catino di Genova
II museo del Tesoro della Cattedrale di San Lorenzo, a Genova, conserva un piatto di vetro verde di forma esagonale, di incerta datazione, che viene chiamato comunemente Sacro Catino. Gautier Map, al quale si attribuisce La Queste del Saint-Graal, definiva il Santo Graal come “la scodella in cui Gesù Cristo mangiò l’agnello il giorno di Pasqua con i suoi discepoli”.
Questa scodella, piatto o catino che a dir si voglia, venne riconosciuto dai Genovesi che parteciparono nel maggio 1101 alla Prima Crociata, in quello che si conservava nella moschea di Cesarea. Trafugato assieme a molti altri oggetti venne portato a Genova, e deposto in una nicchia di un muro interno della chiesa cattedrale di San Lorenzo. Un gruppo di cavalieri genovesi, i Clavigeri, aveva le chiavi delle serrature che chiudevano questo nascondiglio, e solo una volta l’anno l’arcivescovo mostrava l’insigne reliquia al popolo. Se vi erano dubbi se questo fosse stato davvero il piatto utilizzato da Gesù per consumare l’agnello pasquale con i discepoli durante l’Ultima Cena, questi vennero fugati con l’autorevole testimonianza di Jacopo da Varagine, scrittore delle celebre Legenda Aurea, nonché arcivescovo di Genova, il quale assicurava che non solo il catino era autentico, ma era servito “poi a Nùodemo quando raccolse le ultime gocce del sangue di Gesù dopo averlo disceso dalla croce” (Chronicon Juanuense, cap. XVIII). A far credere fin da subito che questo contenitore fosse il vero Santo Graal contribuì, appunto, la convinzione che nei romanzi grafici si parlasse di una pietra smeraldina e finché non si arrivò ad analizzarlo, al tempo di Napoleone, e rendere noto che si trattava di vetro, si pensò che tale vaso fosse tagliato in un enorme smeraldo. Daniele Calcagno, in un suo pregevole studio sull’argomento, a cui rimando (II mistero del “Sacro Catino”, Genova 2000), ha svolto una minuziosa ricerca storica, chiarendo alcuni punti oscuri sulla questione, anche se dall’indagine sono emersi altri “misteri”. Sembra che nel tempo siano esistiti due Catini, uno più alto dell’altro: non è certo se quello conservato a Genova sia l’originale o una copia fatta realizzare successivamente (da chi?). Non è certo nemmeno quando e perché questo catino si ruppe, fatto sta che ancor oggi si vedono i danni intercorsi, anche se un paziente restauro condotto nel 1951 dall’Opifìcio delle Pietre Dure di Firenze, ha restituito allo splendore questa straordinaria reliquia. La maggior parte degli studiosi la ritengono, comunque, uno splendido manufatto dell’arte islamica del IX sec., ma la datazione non è poi così semplice, e chi si occupa di arte vetraria ne sa sicuramente qualcosa. Il mistero, dunque, rimane e in molte sue forme diverse.
Gli altri Graal
Non voglio dilungarmi molto sulla storia di altri due celebri calici, entrambi conservati in Spagna. La letteratura più vasta, comunque, la troviamo a proposito del Calice di Valenza, anche questo trasportato in Occidente dalla cavalleria di ritorno dalle Crociate. Esso è formato da una bellissima coppa emisferica in agata-onice che è decorata da cordoni di perle e pietre preziose. Un altro celebre calice che viene chiamato del Santo Graal, ma che non è riconducibile all’Ultima Cena si conserva in Galizia, nella località di O Cebreiro. Qui, durante il Medioevo, durante l’arrivo di un pellegrino dalla Terra Santa, l’ostia si tramutò in carne e in vino. Come si può vedere la confusione su cosa sia veramente il Graal, ha fatto sì che venissero considerati coppe sovrannaturali anche quelle che erano stati testimoni di questi eventi miracolosi. Un altro Graal si conservava nel tesoro di Giovanni di Francia, duca di Berry, e l’inventario del 1416 relativo agli arredi e oggetti preziosi di questo principe lo menziona così: Non ho altre notizie su questo calice, se esso sia stato disperso o sia finito in qualche altra collezione pubblica o privata. Ma non basta che esistano reali e tangibili reliquie in varie parti d’Europa, perché basta dare uno sguardo all’ampia letteratura sull’argomento, in campo editoriale e in internet, per renderci conto che quasi tutti siano convinti che il vero Graal si nasconda ancora in qualche nascondiglio segreto in una determinata località dalle caratteristiche particolari. Così si è pensato che il Graal potesse essere parte del tesoro dei Templari e che questo si trovasse nascosto sotto il castello di Gisors, in Francia; molti altri sono convinti che il Graal fosse stato affidato dai Sufi ai Cavalieri Teutonici e da questi all’Imperatore Federico II, che avrebbe costruito il simbolico Castel del Monte proprio per preservare questo straordinario dono. I fautori del Graal italiano lo voglio dunque a Torino, oppure a Tortona, o ancora meglio nella Basilica di San Nicola di Bari. Sono convinto che dopo questo mio articolo qualcuno scriverà dicendo che il Graal non si trova nelle località che ho citato, ma in un altro luogo. O che solo una di queste è il vero nascondiglio, mentre le altre sono tutte fandonie. Essendo un agnostico da sempre il problema non mi tocca, e in questo articolo ho soltanto raccolto alcune di queste leggende o storie, e le ho trascritte per dovere di informazione.
L’ultimo Graal: MontSalvat
Sarebbe lungo e fuorviante ricordare tutta la vicenda che portò i nazisti a cercare il vero Santo Graal presso i Pirenei. Questa tradizione vuole che in seguito alla dispersione del culto di Zoroastro, alcune di queste dottrine fossero state ereditate dai Manichei, e in seguito dai Catari: questi sarebbero giunti in Europa dal Medio Oriente, e si sarebbero stabiliti in Francia nel XII sec. Con loro vi era anche il Santo Graal, che sarebbe stato conservato nell’impenetrabile fortezza di Montsegur: sarebbe stato questo uno dei motivi scatenanti per il loro sterminio, ovvero la necessità di recuperare la mistica coppa. Wolfram von Eschembach ci fornisce indizi in proposito parlando del Castello del Graal, di “Munsalvaesche”, ovvero di “MontSalvaf (Monte Salvato o Monte Sicuro). Negli anni ’30 il tedesco Otto Rahn, colonnello delle SS, intraprese alcuni scavi a Montsegur e in altre fortezze catare alla ricerca del Graal, ma pare che nulla sia mai stato trovato. Recentemente per il Graal è stato tirato in ballo anche Rennes-le-Chàteau e la letteratura sta speculando sull’argomento in un modo che non ha eguali nella storia dell’editoria recente. Come se non bastasse, anche oggi, ordini cavaliereschi, sette religiose, enti privati e altre associazioni rivendicano, di possedere la vera reliquia bagnata dal sangue prezioso di Gesù Cristo. Ma è proprio necessario affannarsi in tali speculazioni e in tali ricerche?