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Paolo Aldo Rossi – Storia del pensiero scientifico – Università di Genova
Per la mentalità greca l’idea di natura si basava su un principio incontrovertibile e immutabile cui anche la divinità era subordinata. Il dio greco non è creatore e non può violare il cosmo, né compiere miracoli. Egli è la sacralità della natura. Dal naturalismo della filosofia greca al “dubbio del cristianesimo alla “natura come era concepita nel Rinascimento, questo studio percorre il sottile confine tra scienza e magia.
L’idea centrale che l’Antichità aveva avuto della natura è sicuramente riconoscibile nell’aforisma classico: “Natura hominum deorumque domina ” [Signora degli uomini e degli dei]. Essa come tutti i padroni è gelosa del proprio potere e non lo spartisce con nessuno, esige che si rispetti il suo primo comandamento: “Natura sequere “, ma a chi si dimostra figlio amorevole e rispettoso Essa offre, come la Madre, tutto quel che gli è necessario per la sopravvivenza. Tutte le etimologie ce la presentano come madre, nutrice e pedagoga. Increata, quindi eterna, essa ha il carattere che compete al più potente degli dei, quello a cui tutti gli altri debbono obbedienza. Di fronte a lei Moira ed Ananche e lo stesso Zeus, Padre degli dei, chinano il capo in segno di sottomissione. La sua legge è duplice: fisica ed etica nello stesso tempo; causa-effetto e colpa-pena hanno, per il greco classico, lo stesso tono epistemologico e morale: sono le leggi che governano l’ambiente fisico e quello sociale in cui vivono gli uomini e gli dei.
Sostanza delle cose che hanno in se “il principio del loro movimento” (divenire) essa rappresenta anche il primum metafisico oltre che quello teologico-morale.
Nulla ars imitari solertiam naturae potest è il secondo dei suoi comandamenti, quello che perfeziona il primo affiancando all’obbligo di seguire la legge di natura, il divieto di forzarne il corso. Robert Lenoble, con una formula suggestiva, lo ha chiamato “il tabù del naturale”. Sul piano delle forme delle mentalità lo psichico che si trasporta e si trasmette dall’individuo alla collettività ed a questi di nuovo ritorna sotto forma di norma sociale, questo tabù acquista anche le caratteristiche connotative dell’incesto. (Svelare, penetrare, violare i segreti della Natura)
Madre Natura! Quante volte questa espressione è stata ripetuta a qualificare un imprenscindibile legame di parentela viscerale! Infrangerlo significa autocondannarsi all’automatismo della pena. Seguire la natura però non esclude l’arte. L’artigiano infatti nel rispetto delle leggi di natura può imitare i prodotti della Madre e anche se i risultati resteranno di necessità molto differenti, Essa comunque guarderà il figlio con benevola condiscendenza. La suddivisione fra naturale e artificiale non è però, l’unica possibile delle suddivisioni dell’universo fenomenico. Sia pur in via di ipotesi per assurdo, al naturale e al praeternaturale può essere aggiunto l’innaturale. L’intento di salvare i fenomeni, costante nel pensiero aristotelico (come più tardi lo sarà in quello galileano) nell’accezione di spiegare le apparenze ricorrendo ad un sistema teorico in cui le cose sicut apparent vengono riportate all’universo d’oggetti della teoria e quindi dotate di loro specifiche proprietà e relazioni, non ha costretto ne la fisica aristotelica (né tantomemo la scienza galileana) ad interessarsi della salvezza dei fenomeni eccezionali, ineffabili, legati a cause occulte o a manifestazioni epifenomeniche della volontà divina. Il miracolo dovuto alla fede religiosa ed ai prodigi laici legati alla sfida contro la divinità non è né naturalia né artificialia; dal punto di vista dell’atteggiamento razionalistico, il sovrannaturale miracolante e l’innaturale miracoloso, non esistono scientificamente o, perlomeno, non hanno alcun rapporto con il mondo della Natura. Come leggere altrimenti la necessità ontologica che regge il mondo naturale, se tale necessità e tale ordine necessario può essere sconvolto in qualsiasi momento dal capriccio dell’opera prodigiosa e dall’intrusione del sovrannaturale miracolante? La battaglia iniziata in favore della natura (affrancata da quelle divinità presenti in tutti i fenomeni, e sostituite da principi naturalistici) si trascina nel mondo greco, per più di due secoli, dai protofisici Milesi, attraverso Senofane, fino a Democrito e si conclude con Aristotele, ma era stata una battaglia in cui non era mai stato messo in dubbio da nessuno il fondamento primo: l’incontrovertibilità dell’ordine naturale. Il primo resoconto storico sul mondo era stato, necessariamente, un resoconto mitico ossia fatto attraverso la parola che racconta la meraviglia. Questo altro non è che la “potenza del favoleggiare”, l’uso magico della parola, il che è un bisogno ancor più imperioso di quanto non lo sia quello del ragionare. Non si può: invocare l’ignoranza per dar ragione dell’atteggiamento mitico, l’ignoranza non spiega nulla, mentre questo tipo di pensiero sa tutto e rende ragione di tutto; non vi sono fatti che lo scalfiscono in quanto nel riportarli all’originario li riporta ad un archè dotato di anima e di caratteristiche morali. L’ambiguità della cosmogonia platonica è solo in questa concessione al mito: il fornire l’universo di struttura fisico-matematica e nello stesso tempo di anima, ma assolutamente non accetta lo scandalo originario di tutte le visioni mitico-religiose: la creatio ex nihilo. Il pensiero greco aborre profondamente da una impostazione di questo genere, il dio greco non crea, ma ordina; egli è lo strumento per cui la legge naturale si compie in termini di perfezione. La proposizione che asserisce l’origine dell’essere dal nulla non si può, secondo gli Eleati, né pensare né tantomeno pronunciare. Ma anche nel momento in cui la cultura greca, uscita dal dramma parmenideo, era riuscita con Platone ad imboccare la strada della salvazione dei fenomeni e, quindi, a riproporre il tema dell’origine dell’universo, questa strada non ha mai percorso l’itinerario della creazione. Il dio greco è ordinatore, ma non creatore e in quanto ordinatore deve egli medesimo consentire alle leggi di natura e, di conseguenza, non gli è assolutamente permesso di violare il cosmo. Spesso i poeti ci dicono che al dio tutto è concesso e che esso tutto può, ma questo tutto è iscritto nella sfera dell’accidentale. Egli non ha alcuna possibilità di compiere il miracolo. Il più immediato dei limiti imposti al dio greco è quello di non avere alcun potere sulla morte. Nella religione greca il divino non compare che eccezionalmente quando si tratta di salvare, ammonire, punire, premiare gli uomini; esso è presente nella Natura come sua forma, essenza ed essere. Nelle altre religioni il dio combatte per il suo popolo e lo fa mettendo in gioco tutti i suoi poteri sovrannaturali, quando si presenta lo fa con quella stupefacente gravità che toglie il fiato agli astanti, egli comunica il brivido di eternità che ha l’ineffabile elevatezza e l’inimmaginabile distanza. Il dio greco, invece, è sempre presente nella storia, nei poemi omerici incombe dietro ad ogni avvenimento e nulla si fa senza che si avverta la presenza del divino. Ma questa presenza non opera mai il miracolo. Se il dio greco manca della santità degli dei degli altri popoli, manca anche dei loro poteri eccezionali. Ma a differenza di questi egli non appare mai come un che di sovrannaturale ed extrastorico. Egli rappresenta la sacralità della natura, la quale pur senza mai perdere i venerabili contorni del divino, si eleva nella sua condizione di realtà sensibile ed intelleggibile. Nulla avviene se non per la necessità fissata nelle cose; la Legge è la stessa che regola sia la polis che il periechon. E’ per questo che il mondo è intelleggibile e razionale: la città dell’uomo è governata dalla legge morale, mentre l’universo da quella fisica ossia dalle due facce della medesima “causa necessaria”. La legge è ciò che garantisce all’abitante della polis la libertà e all’universo la sopravvivenza; l’ordine che non può esistere senza la legge consente nello stesso tempo l’esistenza della polis e del cosmo.
Questa legge universale, capace di fungere da principio unificatore ed elemento ordinatore di tutto l’esistente andava rigorosamente garantita da qualsiasi tentativo di violazione. Nella antica mitologia le Erinni (le severe signore gendarmi di Dike) svolgono la funzione di personificare la potenza delegata alla difesa delle norme e, quindi, alla custodia dell’ordine naturale e sociale. L’ordine necessario è assolutamente inviolabile, esso è la legge di natura che fa si che l’universo sia regolato secondo giustizia; nessuna azione può romperlo, nessuna volontà può piegarlo, neppure il dio vi si può opporre. Quando l’uomo diventa superbo e si ingelosisce degli dei, quando l’ybris lo avvolge, allora per invidia del loro potere concepisce l’intenzione di “andare oltre”, di rompere l’ordine fissato. E’ in quel momento che scatta la ftonos, ossia la legge del contrappasso, l’ineluttabile punizione che non può mai trasformarsi in perdono perché il suo scopo è quello di ricomporre l’ordine che l’intenzione (non l’azione ) dell’uomo aveva provato ad infrangere.
Confrontata e messa in chiaro all’interno di un tale spazio prospettico, la cosmogonia del Pimandro mostra l’invalicabile distanza che separa il naturalismo rinascimentale dalla fisica dal mondo classico. La riscoperta ficiniana di Ermete e la conseguente applicazione pichiana della magia del Sermo Perfectus non possono assolutamente essere viste come un recupero della filosofia ellenica della natura, bensì come un itinerario speculare ed opposto a questa.
In definitiva un altra filosofia. Altra in particolare rispetto all’aristotelismo che, al contrario, aveva costantemente cercato di garantire l’ordine naturale.
Sotto questa luce si può immediatamente comprendere il perché, almeno fino alla metà del XVII secolo, sono in pochi a credere che l’edificio della filosofia classica debba essere abbattuto dalle fondamenta. In realtà la filosofia aristotelica non ha ancora stancato di convincere e, nonostante per quasi due millenni avesse trovato ovunque oppositori, alla fine risultava sempre la più convincente fra le interpretazioni sistematiche del mondo. La forza di questo grandioso sistema di filosofia naturale risultò infatti anche dalla estrema debolezza dei sistemi concorrenti, i quali commisero lo stesso errore di credere che la filosofia fosse l’unica forma di sapere sulla natura, ma a differenza di Aristotele non seppero dar ragione della Natura riportando i fenomeni ad una teoria in cui avrebbero dovuto essere ordinati secondo l’esigenza dell’universalità e della necessità il che è, in definitiva, ancora l’unico modo per risolvere l’aporia parmenidea e “salvare i fenomeni”.
Nel II libro della Fisica, Aristotele aveva istituito la differenza fra l’opera della Natura e quella dell’uomo come differenza fra sostanzialità ed accidentalità: “La natura è il principio e la causa del movimento e della quiete delle cose, alla quale inerisce in primis e per sé, non accidentalmente l’essere “. Tutta la fisica aristotelica (teoria dell’essere in divenire) diventa quindi una colossale definizione del concetto di Natura. Nel IV e V libro della Metafisica tale concetto è chiarito in modo da non lasciare adito a dubbi su quel che l’Autore intende per Natura: “Sostanza delle cose che hanno in sé il principio del movimento”, mentre la fisica è detta la scienza che ha per oggetto” quella sostanza che ha in sé stessa la causa del suo divenire”.
La pietra di paragone sulla quale provare ciò che è naturale da quello che non lo è, è così stata trovata. Solo il “non esistente” può essere considerato “innaturale” Non a caso Aristotele dimostra l’inesistenza del vuoto, facendo vedere che il movimento di un oggetto nel vuoto sarebbe innaturale, o meglio che, data l’ipotesi per assurdo, esisterebbero degli enti che non tenderebbero al proprio fine, che è la realizzazione della propria forma, sostanza o natura. L’artificiale invece non sta fuori dall’ordine naturale, ma appartenendo alla sfera dell’accidentale, fa parte della Natura. L’artigiano che, però, non si limitasse soltanto a copiare la Natura, consapevole e convinto di non poterla mai raggiungere, ma che volesse, al contrario sostituirsi alla solerzia (solus ars) di Madre Natura, dovrebbe rassegnarsi alla vendetta che colpisce gli hybrizontes: il fallimento. E’ così che è solo l’intenzione ad andar contro natura e non il risultato dell’operazione. L’andar contro natura non porta alcun danno alla natura, ma solo a chi ha commesso il crimine.
La fisica aristotelica rappresenta quindi l’apice a cui giunge la visione del mondo del naturalismo classico e, fedele all’idea che è sui principi della metafisica che è possibile costruire sia la fisica che la teologia, l’aristotelico non spiegherà mai il miracolo (fatto evidentemente sempre estraneo all’atteggiamento metafisico) e, quando si troverà a non poterne fare a meno, dato che talvolta deve ammettere evidenzialmente il prodigioso, sarà costretto ad arrampicarsi sugli specchi o rifacendosi ad un disegno spirituale della Provvidenza e della Volontà divina come San Tommaso o entrando artificiosamente, come il Pomponazzi, di riportare i miracoli all’ordine naturale mediante il ragionamento che questi sono la rarissima eccezione che conferma la regola.
Due soluzioni estremamente pericolose in cui non cadono né Aristotele né gli scienziati del XVII secolo per i quali, in modo peraltro epistemologicamente corretto, ciò che non fa parte dell’universo d’oggetti della teoria non deve neppur essere preso in considerazione in quanto non “esiste”. La rottura delle basi teoriche e teoretiche, rappresentato dall’evento miracoloso, avrebbe significato, infatti, la condanna al disordine e quindi alla perdita di senso di ogni funzione cognitiva.
Paradossalmente fu il massimo interprete cristiano di Aristotele colui che inserirà nella cultura occidentale il dubbio che su questo punto estremamente qualificante lo Stagirita avesse sbagliato. La Quaestio 178 della Secunda Secundae, De Gratia miraculorum, è scritta infrangendo le stesse basi della filosofia classica. San Tommaso infatti dopo aver precisato che il miracolo è “qualcosa che va oltre le facoltà della natura”, e che la ragione per cui il miracolo avviene è “per manifestare il soprannaturale”, si chiede “se anche i malvagi possono compiere il miracolo”. La risposta, come noto, è negativa, dato che “i veri miracoli sono fatti soltanto da Dio e per l’utilità degli uomini “. Egli però ammette l’esistenza di fatti che non sono per la verità miracoli veri e propri perché “non habent rationem miraculi ” (il sigillo divino), pur essendo fatti straordinari, prodigiosi, in grado di sconvolgere l’ordine naturale. Sono questi fatti, apparizioni soprannaturali o eventi prodigiosi, opera del Maligno il quale, in modo alquanto curioso, opera “virtutem aliquarum naturalium causarum” [grazie a certe cause naturali] proprio per sconvolgere l’ordine naturale.
D’ora in poi la distinzione fra miracolo e prodigio è fissata: solo Dio può fare miracoli modificando per fini spirituali e con mezzi sovrannaturali l’ordine che egli stesso ha fissato alla natura, mentre è Satana che compie i prodigi e tramite i suoi emissari umani sconvolge l’ordine naturale con mezzi perfettamente naturali. Il problema del miracolo è giocato dalla Scolastica negli stessi termini con cui Aristotele aveva impostato la differenza fra naturale e artificiale. L’analogia è scoperta: il demonio è la scimmia di Dio, così come l’arte è la scimmia della natura e, così come l’imitazione della Natura può istituirsi soltanto sulla sfera estrinseca dell’operare, ma non su quella intrinseca dell’essere, allo stesso modo il prodigio imita il miracolo nel suo svolgersi, ma non nel suo essere.
La ricetta con la quale furono scritte le tante demonologie del XVI secolo è di semplice esecuzione, dato che le demonologie altro non sono che teologie a rovescio (in cui Satana si sostituisce a Dio, ma solo in modo accidentale). Satana è il grande naturalista dell’epoca: conosce le virtù delle erbe e delle pietre, sa quelli che sono gli influssi degli astri, tiene viva la speranza degli uomini di raggiungere il sogno atavico della vittoria sulla natura e del dominio sugli elementi, conosce le formule e quindi sa trattare con i nomi delle cose e, di conseguenza, conosce le cose. L’emblema della Superbia (il primo cultore dell’hybris), Colui che ha tentato l’uomo affinché mangiasse dell’albero della conoscenza, è alchimista, cabalista, astrologo, negromante, geomante, piromante, idromante, aeromante, aruspice, augure, mago naturale… Egli è definito “il principe di questo mondo” ossia colui che ha pieno potere nella sfera sub-lunare. Il suo però non è un potere carismatico, ma è conquistato nella continua sfida alla natura. In questo senso egli è il padre della mentalità naturalistica e nello stesso tempo il padre del disordine, il primo assertore della formula smaragdiana: “Ciò che sta in alto è come quel che sta in basso e quel che sta in basso è come quel che sta in alto “. Nella girandola del pampsichistico non esiste un ordine da rilevare, leggi da fissare, cose da oggettivare, ma solo un fecondo disordine che va costantemente ricostituito. Ma allora quale senso dare al diffusissimo uso che il termine “naturale” ha acquisito nella filosofia del Rinascimento tanto da divenirne quasi l’aggettivo qualificativo? Marsilio Ficino dichiara che la vera magia è quella di coloro che: “sottopongono opportunamente le materie naturali e le cause naturali, onde si plasmino per una certa mirabile legge” e ancora: “.. non si parla qui di quella magia profana che si fonda sul culto dei demoni, ma della magia naturale che sfrutta i benefici influssi celesti con i mezzi naturali “. Pico della Mirandola ribadisce che l’operazione magica è il matrimonio del mondo che avviene “actuando vel uniendo virtutes naturales “.Cornelio Agrippa di Nettesheim avverte che il Mago ottiene i suoi scopi attraverso: “..la concordanza del mondo in cui le cose celesti attraggono quelle sovracelesti e le cose naturali quelle sovrannaturali grazie alla virtù che circola in tutte le cose e alla partecipazione ad essa di tutte le specie” e ribadisce che:”..s’ingannano quelli che stimano le operazioni magiche essere sovrannaturali o praeternaturali mentre provengono dalla natura e son fatte secondo natura “. Pietro Pomponazzi addirittura pensa che angeli e demoni siano costretti ad agire secondo le leggi cui sottostà il mondo naturale. Il Della Porta avverte che: “chi cerca una ragione di tutto distrugge insieme scienza e ragione ;chi non ha fede nei miracoli della natura costui cerca di distruggere la filosofia ” e ancora del mago : ” .. cava i segreti i quali stavano tutti racchiusi nel grembo della natura “. Bacone stesso nel descrivere Nuova Atlantide dice che là vi è una casa degli inganni, una specie di laboratorio dove si apprendono tutte le arti atte a generare meraviglia tramite tecniche illusionistiche. I sapienti della Casa di Salomone, però, non ricorrono mai a queste, pur conoscendole, ma si dedicano a produrre operazioni “miracolose” per via naturale. Il capolavoro del naturalismo rinascimentale è la rottura con il principio aristotelico che sancisce la differenza, in ordine alla diversità delle rispettive forme, fra i naturalia e gli artificialia, proclamando l’artificialità del naturale. “Per gli uomini del XVI e XVII secolo – scrive il Koyrè – tutto è naturale e nulla è impossibile a farsi, dato che la magia tutto governa e la stessa natura non è che magia operata da un Dio supremo mago ” La strada aperta da Marsilio come pia philosophia o docta religio si trova ad essere esattamente rovesciata ed il cammino è invertito. Nessuna regola esiste più, l’incoartabile eros del Pimandro, tra uomo e natura, fluisce senza limiti, l’ascesi è dimenticata, il ritorno all’Uno-Tutto è lasciato da parte, la funzione sacerdotale della magia viene superata, il massimo della soddisfazione del Mago rinascimentale gli viene dal rapporto diretto con la Natura che, da mezzo per salire a Dio, diviene fine a se stesso. L’unico principio metodologico ed epistemologico che guida il lavoro del naturalista, vuoi cultore di scienze occulte vuoi cultore di magia naturale, è l’analogia come libera associazione d’idee (reputata per una curiosa riedizione della dottrina scolastica dell’adaequatio non solo legge del pensiero, ma anche norma universale che regola tutti gli esseri). L’analogia non richiede un metodo i quanto essa stessa è metodo che si fonda sulla rottura di ogni schema, ribellione al pensiero disciplinato, libero ed incontrollato fluire della metafora: il gioco del significato che ripercorre se stesso e sul proprio cammino si ricrea in un caleidoscopio di strutture analoghe, univoche ed equivoche che tra di loro si richiamano, si elidono e si rafforzano. Non esiste nel ricettario del “sorçier” una sola prescrizione autenticamente normativa; ogni mago, astrologo, alchimista ha una sua precettistica sulla quale costruisce un ricettario che viene inevitabilmente dichiarato inefficace da tutti gli altri maghi e, nello stesso tempo, unico e infallibile dal suo estensore. Sullo schema concettuale della Divina Analogia il XVI secolo costruisce i predicati base della sua teoria fisico-naturalistica. Questi sono le simpatie e le virtù, con ciò si può poi passare a definire con precisione le proprietà e le relazioni fra i fenomeni. Ma nessuno dei maghi del Rinascimento è disposto ad ammettere che i miracoli della magia rappresentano una violazione alle leggi naturali: “La magia naturale è dunque quella – scrive Cornelio Agrippa – la quale avendo contemplato la forza di tutte le cose naturali e celesti e con curiosa diligenza il loro ordine, in tal modo pubblica le nascoste e segrete possanze di natura copulando le cose inferiori con le superiori … per una scambievole applicazione di quelle; di maniera tale che spesse volte di qui ne nascono stupendi miracoli non tanto per l’arte quanto per la natura ala quale quand’ella opra di quelle cose, quest’arte si da per ministra. Perciocchè i magi come diligentissimi esploratori della natura conducendo quelle cose che sono preparate da lei, applicando gli attivi ai passivi, spessissime volte innanzi il tempo ordinato dalla natura producono effetti quali dal vulgo sono ritenuti per miracoli sendo però opere naturali non intervenendo altro che la sola anticipazione del tempo: come se alcuno facesse nascer rose nel mese di marzo o crescer l’uve mature ..” Ma da una attenta lettura del De Occulta Philosophia il suo è, invece, un dichiarato progetto di conquista dell’onnipotenza: “Penetrare successivamente in ciascuno dei tre mondi e giungere fino al mondo archetiipo animatore … e godere non solo delle virtù possedute solo dalle cose più nobili, ma conquistarne di nuove e sempre più efficaci … Conseguire tanta forza attrattiva, ottenere sempre più mirabili e grandiose opere si da ascendere a tale perfezione da divenir simili al figlio di Dio, trasformarsi nella immagine stessa di Dio ed essere con lui una cosa sola “. A tal fine non rifugge dal ricorrere a tutte le tecniche che Marsilio reputava vietate e Pico dichiarava vane e sciocche, quali la stessa magia cerimoniale. La terza parte della sua famosissima opera è appunto dedicata ad una magia che non disdegna tra l’altro l’esorcismo, l’invocazione dei demoni e la necromanzia.
L’abate Tritemio scrive un’opera, la Steganographia, in cui si insegna ad evocare gli angeli (e con qualche lieve modifica i demoni) dei vari distretti. A differenza di Marsilio che dalle Gerarchie celesti dello pseudo-Dionigi aveva tratto soltanto la rete dei collegamenti fra la Trinità, le Intelligenze angeliche e le Sfere, ma si era piamente interessato (dal punto di vista operativo ai soli pianeti), Tritemio insegna a mettersi in contatto telepatico con gli Spiriti celesti ed a carpir loro, anche loro malgrado, i segreti dell’Universo. J. Dee, il matematico elisabettiano riscopritore di Euclide, si dedica con l’aiuto del ciarlatano Edward Kelley, all’evocazione degli spiriti dei defunti. Gerolamo Cardano, forse il più geniale degli algebristi moderni, spazia tutti i campi del magico ed usa la matematica anche come tecnica strumentale per le sue pratiche astrologico-cabalistiche. Il medico Jean Fernel, uomo di non indifferente statura clinica, applica l’astrologia alla terapeutica (cosa peraltro consueta ad ogni medico), ma vi aggiunge talismani, evocazioni e formule. Anche Michele Serveto (condiscepolo di Vesalio) al quale si attribuisce la prima idea della circolazione polmonare, non ha alcun ritegno a dedicarsi alla magia. Tra i grandi astronomi dell’epoca non vanno taciute le scoperte simpatie magico-astrologiche di Tycho, Digges, Regiomontano e Keplero; tra i matematici quelle di Cardano, Dee e Copernico; tra i filosofi quelle di Bruno, Pomponazzi e Campanella; tra i medici quelle di Fernel, Serveto, Fracastoro e Paracelso; fra i fisici di Gilbert e Della Porta e fra gli ingegneri Besson e Salomone di Caus indulsero alle tematiche e alle tecniche della magia. Sono questi alcuni dei nomi più importanti (e non abbiamo citato gli artisti) della “filosofia naturalistica” e dello stesso tempo della “scienza” del XVI e degli inizi del XVII secolo.
Il caso del Somnium di Keplero, spesso sottaciuto o solo accennato nelle storie della scienza, è al riguardo emblematico. Opera autobiografica e non certo solo di fantasia, il Somnium ci racconta la filiazione culturale del padre dell’astronomia e dell’ottica moderna. Egli racconta che, ancor fanciullo, iniziato dalla madre, una Strega, alle tecniche della magia popolare (in effetti Katarina Kepler fu sottoposta ad un processo per stregoneria e riuscì a salvarsi grazie all’intervento del figlio), avendo smarrito alcuni talismani, viene ceduto in luogo di quelli al capitano di una nave che spesso faceva uso dei servigi della Strega; costui lo conduce all’isola di Uranisburg, dove lo vende a Tycho Brahe che lo istruisce ai segreti dell’astronomia e dell’astrologia.
E’ questa la parabola il segno emblematico di tutta la sua epoca: nell’istruzione del giovane Duracoto (lo pseudonimo scelto da Keplero) figlio naturale della Strega e figlio putativo del Dotto-Mago-Astronomo si riconosce il cammino di quell’età del mondo, breve, ma intensa che va sotto il nome di Rinascimento scientifico: un tempo in cui l’uomo è figlio della Strega e dello scienziato. Generato dall’intelligenza della fantasia, dall’eros incoartabile verso la vita, dai sogni disegnati dal desiderio, l’età della “rinascita” coltiva una struttura di fecondo disordine generale fatta però di parti rigorosamente ordinate e funzionalmente connesse.
Il rapporto Uomo-Natura che, nel Rinascimento, aveva superato il tabù dell’incesto con la Natura Madre, divenendo quasi rapporto carnale con I’Amante, si traduce, all’inizio dell’eta moderna, in un matrimonio di scarsa esaltazione poetica, ma di grande utilità pratica. Al paritetico rapporto Uomo-Natura dello splendido mito ermetico che, da Marsilio Ficino in poi viene riproposto all’occidente, corrisponde la forma dialettica del servo-padrone di Bacone: nel primo caso, in cui: “la Natura avendo accolto in se l’amato I’abbraccio e si unirono perché ardevano d’amore”, vivono e si sviluppano tutte le esaltanti fantasie inquiete e gli inappagabili desideri dell’incoartabile eros giovanile, nel secondo, l’appena conquistata maturità genera un matrimonio dove: “ars est homo additus naturae” e “naturae solum imperatur nisi parendo”.