Prefazione

L’accorto filosofo, che “con gli occhi di Linceo” contempla la “gran machina” del mondo e si appresta riportare sul foglio quel che un pittore riprodurrebbe su tela, deve ricorrere alla tecnica del dettaglio per capire i segreti della Natura. E come colui che dipinge “vi fa vedere qua un regio palaggio, ivi una selva, là uno straccio di cielo, in quel canto un mezo sol che nasce, e da passo in passo un ucello, un porco, un cervio, un asino, un cavallo: mentre basta di questo far vedere una testa, di quello un corno”. Ma se si vuole che nel quadro entri l’intero Universo, il compito è ben più difficile, poiché in questo caso il pittore- filosofo “non ha ossuto esaminare il ritratto con què spacii et distanze, che soglion prendere i maestri de l’arte”, non può cioè allontanarsi, controllare che le macchie di colore “rispondano perfettamente al vivo”, semplicemente perché non c’è spazio fuori del tutto. Eppure, a tale compimento doveva dedicare l’intera sua vita Filippo (poi Giordano) Bruno da Nola. L’impresa appare ancor più “eroica” poiché la sua “nuova, risoluta et certissima dottrina” dell’Universo infinito e dei mondi innumerabili finiva per far giustizia di qualsiasi spettatore esterno di un cosmo chiuso, uomo o Dio che fosse.
Pochi al tempo apprezzarono la forza dirompente della nuova filosofia. Non ci riferiamo solo a uomini di Stato o di Chiesa, e nemmeno agli accademici più conservatori che Bruno non mancò mai di affrontare e dileggiare. Parlino, invece, gli uomini della nuova scienza, insieme matematica e sperimentale: Tycho Brahe liquida le speculazioni della “musa nolona” come come pure sciocchezze; Johannes Kepler mobilita tutte le risorse intellettuali di cui dispone per venire a capo del timore dell’infinito; Galileo Galilei, più diplomaticamente, lo usa senza maimenzionarlo, a meno che non abbia ragione chi sostiene che a Bruno alluda quella battuta nella Giornata terza del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo in cui Sagredo ricorda “certa maniera di dipingere che aveva un amico mio, il quale sopra la tela scriveva con gesso: “qui voglio che sia un cacciatore, con testa di cervio; il resto, campagna, bosco e collinette”, il rimanente poi lasciava con colori figurare al pittore: e così si persuadeva d’avere egli stesso dipinto il caso d’Atteone, non ci avendo messo di suo altro che i nomi”.
Con amici del genere non c’era bisogno di nemici. Eppure, Bruno riuscì a trovarli, dipingendosi ora come Mercurio inviato dagli dei o come distruttore delle “muraglie” del pregiudizio, ora come “esule”, “fuggiasco”, “zimbello di fortuna”, “piccolo di corpo”, “scarso di beni” e “privo di favore”. La storia non sembra avergli dato ragione, facendone nel migliore dei casi solo la vittima laica di una persecuzione religiosa, un cliché che il Nolano per primo avrebbe sdegnosamente rifiutato. I suoi disegni politici si sono infranti di fronte a quella crisi dell’Europa che qualche decennio dopo doveva portare alla Guerra dei Trent’anni sul continente e alla Grande Ribellione nelle isole britanniche; la sua matematica magica è stata relegata nel museo delle curiosità dal dirompente successo degli algebristi e geometri che tanto aveva biasimato. Tuttavia, storici e filosofi della scienza come Moritz Schlick, Alexandre Koyrè e Thomas Kuhn sono stati concordi nell’asserire che la nostra modernità, a partire dalla sua dimensione scientifica, risulterebbe inconcepibile senza Bruno e i suoi mondi innumerevoli. 

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