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di Roberto Volterri
L’estasi d’amore nella filosofia orientale è velata di poesia e passione. Lo yin e lo yang possono sublimarsi solo se lo “stelo di giada” incontra la “porta del cinabro”.
Forse, in Cina, la visione dualistica del mondo, basata sulla perenne contrapposizione di due forze, di due elementi antagonisti – yin e yang, lunare e solare – nacque proprio dall’eterna contrapposizione delle due “metà del Cielo”, con cui la vita intelligente, la cultura, il sapere, la conoscenza si sono perpetuale sulla Terra: l’Uomo e la Donna… La contemplativa mentalità cinese fu, evidentemente, portata a una visione poetica del mondo, in cui alcuni peculiari aspetti dell’universo che ci circonda erano considerati appartenenti alle forze eteriche denominate yìn, mentre altri erano definiti yang. Così, ogni eclatante manifestazione vitale, ogni “esplosione” energetica, la luce, il fuoco, l’astro solare erano considerati yang, mentre l’oscurità, l’acqua, il nostro satellite naturale, la morte stessa erano definite yin. E tutto ciò, come a volte accade, si estese anche al mondo delle arti visive, della poesia e nel modo di scrivere gli ideogrammi. Ritenuti dapprima nati insieme alle incisioni su gusci di tartaruga e su ossa di bovini al tempo della dinastia Shang, del XIV secolo a.C., i primi ideogrammi sono stati in realtà retrodatati a circa 4.300 anni fa, in seguito alla scoperta avvenuta, nel 1992, nel villaggio Ding-gong (nella provincia di Shandong, Cina orientale), di un frammento fittile sul quale sono incisi undici differenti caratteri disposti su cinque linee che esprimono, in estrema sintesi, concetti a volte molto complessi. Riguardo la nozione di eros e di sessualità nell’antica Cina, la dottoressa Marina Miranda, studiosa degli aspetti medici legati alla sinologia, in un suo articolo, pubblicato nel 1995 sulla Rivista Italiana di Medicina Tradizionale Cinese, ebbe modo di illustrare efficacemente come alcuni ideogrammi derivino direttamente dall’armonica fusione di concetti legati alla sessualità. Vediamo così che l’ideogramma “cao” – “rapporto sessuale” – si esprime graficamente mediante il radicale “entrare” posto sopra il simbolo che significa “carne”. Identifichiamo nell’ideogramma “tu” – “terra” – un segno spesso inciso sui gusci di tartaruga, sulle ossa di bue, sugli antichi bronzi, che ricorda l’altare del dio Sole, datore di “vita”, espresso in forma fallica. Apprendiamo che l’ideogramma “wu” – “madre” – è rappresentato da una figura molto stilizzata di donna che, fecondata dall’organo maschile, una linea orizzontale, sviluppa i seni necessari all’allattamento e così via.
Ma molto spesso, consultando testi letterari sull’antica arte d’amare cinese, ci imbattiamo anche in termini apparentemente astrusi, ma che riflettono, invece, la poetica visione della vita che ha caratterizzato – soprattutto in passato – quest’antica civiltà. Vediamone alcuni.
LA POESIA DELL’ARS AMANDI
Stelo di giada, porta di cinabro, terrazza preziosa, vene di giada. Cosa mai si celava, nell’antica Cina, dietro queste poetiche descrizioni che avrebbero suscitato certamente la malcelata invidia dell’immaginifico D’Annunzio se fosse vissuto all’ombra della Grande Muraglia? Un minimo di fantasia ci aiuterebbe sicuramente nell’individuare nello “stelo di giada” l’organo generatore maschile, nella “porta di cinabro” il complementare organo femminile, nella “terrazza preziosa” il clitoride e nelle “vene di giada” le cosiddette “piccole labbra”.
E’ un modo altamente poetico per descrivere le parti del corpo umano che, da sempre, suscitano un certo imbarazzo in chi è costretto a menzionarle. I cinesi, con la loro concezione altamente filosofica dell’esistenza, superarono felicemente l’ostacolo, chiedendo al lettore solo un minimo sforzo di fantasia, un aggancio mentale tra l’immaginifica descrizione e l'”oggetto del desiderio”. Anzi, superarono sé stessi nel fornire ai partners raffinati consigli per prepararsi psicologicamente e per armonizzare i loro singoli desideri. Similmente a quanto poi si vedrà per l’antica India, i taoisti suggerivano almeno nove particolari posizioni fisiche – che potevano diventare anche trenta per i più “dotati” – descritte, al solito, in termini talmente suggestivi e poetici come se si trattasse di tutt’altro argomento. Dobbiamo così immaginare come si articolasse il “congiungimento delle cicale” e cosa accadesse nella “stanza di giada”, nell’alcova, quando si faceva “svolazzare la fenice”. E non poca fantasia ci viene questa volta richiesta nell’immaginare cosa accadesse durante l’atto di “lambire il coniglio” oppure nel caso non ci riuscissimo, potremmo sempre attenerci a più noti e collaudati metodi occidentali… Peccato!
LA RAFFINATA ALCHIMIA DELL’ESTASI
Ma ciò che nell’antica Cina era ritenuto alla base di ogni pratica sessuale era il “soffio” – il qi- e l’essenza vitale – il jing. Per Zhuang Zi, filosofo taoista, ogni manifestazione vitale è concentrazione vitale del “soffio”: se esso si concentra, è vita, se esso si disperde è la morte”. L’essenza vitale veniva concepita come racchiusa nel liquido seminale e nelle secrezioni della “porta di cinabro”. Si pensava che sublimando con certe particolari pratiche ascetiche tale “essenza vitale”, la sua energia risalisse attraverso la colonna celebrale verso il cervello, tanto che ancor oggi gli afrodisiaci usati correntemente in Cina, quali le pinne di pescecane e altre “prelibatezze” del genere, vengono denominati hu-nao che significa “riparatori del cervello”. Ma per armonizzare i due partners impegnali nelle fatiche d’amore, i testi taoisti di sessuologia ricordavano che yin e yang, i princìpi essenziali femminile e maschile, si influenzano scambievolmente. Quando lo yang non ottiene la yin è triste e se la yin non ottiene lo yang non vi sarà attività. Quindi, i maestri taoisti suggerivano alcuni segreti per “armonizzare” preliminarmente le energie vitali: “Prenda la donna il palo di giada (ormai sappiamo cos’è…) di lui nella mano sinistra mentre egli accarezza la porta dorata (che abbiamo già incontrato. Era di cinabro… ma fa lo stesso) di lei con la mano destra; mossa dalla forza dell’elemento femminile, il suo palo di giada si eccita. Stimolata dalla stessa forza del maschio, la sua porta dorata comincia a traboccare, come un fiume che scorre in una valle. Quando si raggiunge questo punto, si ottiene la sintonia degli umori”. Tutto sommato ancora una volta “Nihil sub sole novum!”.
IL FETICISMO DEI “GIGLI D’ORO”
Una delle più strane – per noi occidentali, s’intende! – usanze dell’antica Cina era quella della fasciatura dei piedi. In realtà, il culto quasi feticistico dei cinesi per i piedi femminili risale a periodi storici che precedono la predicazione di Confucio (551-479 a.C.). Secondo Zhang Bangi, vissuto nel XII secolo, tale inconsueta pratica era nata, infatti, durante il regno di Li Yu (961-975 d.C.) appartenente alla dinastia dei Song. Innamoratosi di una leggiadra danzatrice che frequentava il palazzo e che rispondeva al suggestivo nome di Fanciulla Soave, Li Yu fece costruire in suo onore un fiore di loto d’oro con un diametro di circa due metri, adornato di perle, e chiese alla giovane di danzarvi sopra, facendole, però, prima fasciare i piedi con nastri di seta bianca, in modo che assomigliassero alle estremità di una falce lunare. La cosa tanto piacque che divenne usanza diffusa, dapprima in ambienti di corte e poi anche tra la gente comune. Dopo il X secolo, tale pratica – leggende a parte – tra i ceti più abbienti, consentiva al marito di limitare al massimo la libertà della sfortunata consorte, poiché la strettissima fasciatura faceva passare immediatamente alla malcapitata qualsiasi velleità di allontanarsi da casa. Ma la fasciatura dei piedi – dai cinesi poeticamente denominati “piccoli gigli d’oro” – costringeva la donna a camminare ancheggiando più di quanto in realtà avesse voluto, suscitando chissà quali ardite fantasie sessuali nella mente degli uomini. Inoltre, si riteneva che la costrizione del piede portasse a una sorta di atrofia dei muscoli gemelli del polpaccio, che, unita a un’ipertrofia dei muscoli sartori delle cosce e della muscolatura del mons veneris, aumentasse enormemente le capacità amatorie della gentile dama di corte. Ma non furono sempre periodi “caldi” nell’antica Cina. Con l’avvento del Confucianesimo, nel I – II secolo a.C.. ogni pratica destinata ad accrescere l’interesse verso l’erotismo fu bandita. Furono vietati i liberi rapporti tra uomini e donne, vennero imposte restrizioni anche riguardo normali incontri tra i due sessi, non tanto in ossequio a principi d’ordine religioso o etico, quanto in base a una discutibile concezione dell’idea di quella che oggi definiremmo privacy. In sostanza, ognuno era libero di fare quel che il proprio istinto, la propria libido gli suggeriva: l’importante è che tutto ciò non influenzasse “negativamente” i suoi simili, gli altri membri della società in cui l’individuo agiva. Per il Confucianesimo, infatti, la sessualità, e più ancora l’erotismo, costituivano un latente pericolo sociale, poiché incanalavano “altrove” energie che avrebbero potuto più profiquamente essere devolute al lavoro e ad altre attività utili alla collettività.
Il Confucianesimo teorizzava al massimo il valido concetto dell’historia magistra vitae e ammoniva a non ricadere nell’errore commesso dalle dinastie che si erano avvicendate fino ad allora e che avevano causato, esse stesse, la loro caduta per l’eccesso di “lussuria” e che per indegnità si erano viste “revocare” la divina investitura a regnare.
UN ANELLO PER LO “STELO DI GIADA”
Ma se un pur focoso amante avesse trovato qualche difficoltà – definiamola così,.. – nel mostrare all’amata la virile energia che animava il suo corpo, l’inesauribile fantasia cinese aveva trovato sicuro rimedio. L’accessorio che oggi è possibile trovare in qualche negozio “specializzato”, il cosiddetto cock ring (un anello per mantenere l’erezione del pene), era già noto nell’antica Cina e citato in molti racconti erotici redatti al tempo della dinastia Ming. Per le classi più abbienti, di solito, veniva realizzato con l’avorio, o altri materiali pregiati opportunamente lavorati, per offrire il massimo “conforto” alla “porta di cinabro” della dama di turno. Veniva collocato attorno alla base del pene e assicurato mediante un nastro di seta che passava in mezzo alle gambe e attorno alla vita. Per le genti più povere, invece, si trattava di un semplice nastro di stoffa che veniva stretto attorno alla base dello “stelo di giada” e aveva la medesima funzione di mantenere il più a lungo possibile la condizione necessaria per un completo rapporto sessuale. Una specie di Viagra meccanico ante litteram, dunque! E per la donna? Una sorta di par condicio di là da venire assicurava anche al gentil sesso soluzioni che garantivano il completo raggiungimento dell’obiettivo finale in quella complessa alchimia dell’estasi che è il rapporto sessuale. Descritte dapprima dal nobile viaggiatore veneziano Niccolo dei Conti (XV secolo) e, successivamente, anche dall’esploratore inglese Ralph Fitch (fine del XVI secolo) come “campanelli birmani”, perché molto in voga in questo stato, alcune sferette denominate dai giapponesi rin-no-tama (letteralmente “palline tintinnanti”) offrivano alle donne la possibilità di incrementare all’infinito le stimolazioni sulla “terrazza di giada”.
Usate durante il rapporto, venivano poste all’intemo della “porta di cinabro” prima che lo “stelo” completasse l’unione, ma venivano utilizzate anche in assenza dell’organo maschile, sotto forma di due sferette d’argento, una contenente una goccia di mercurio e l’altra munita di una piccola escrescenza, in modo da assicurare intense, intense e ripetute stimolazioni a ogni movimento della solitaria dama. Anche i dignitari di corte non tardarono a utilizzarle, introducendole sotto la pelle dello “stelo”, e lo stesso imperatore le cambiava spesso, facendo dono ai suoi cortigiani di quelle… usate! Ma se proprio si era insoddisfatti di quanto Madre Natura aveva elargito all’aspirante Casanova allergico a ogni (quasi) cruento intervento per “accrescere” la propria prestanza tisica, si poteva sempre ricorrere – come avvenne anche in un medievale Occidente – alle arti magiche.
“Ridurre in polvere la Bischiniaka glabra (chissà mai dove potevano procurarsela!), aggiungere polvere di estera (un ‘alga marina), setacciate il tutto e unitevi estratto di fegato di cane bianco ucciso sotto la Luna. Applicare l’unguento così ottenuto sullo “Stelo di Giada” e aspergetelo poi con acqua di pozzo prelevata al sorgere de! Sole”. Così, infatti, prescrivevano antichi testi cinesi confidando forse più sull’effetto placebo che sulla reale efficacia degli improbabili componenti del disgustoso unguento! Ma tra gli ausilii suggeriti dalla medicina tradizionale cinese, il posto d’onore – almeno da noi in Occidente – è rivestito dal ginseng, in particolare da quando esperimenti condotti in ambito medico ne hanno effettivamente constatato l’efficacia, soprattutto per quanto riguarda il gin-seng rosso. Però, nel caso fosse difficile reperire questa pregiata e tanto decantata radice, vorrei suggerire ai lettori – non si sa mai… – la semplice ricetta per una “tisana” afrodisiaca che qualsiasi erborista riuscirà a comporre, ma che andrebbe assunta cum grano salis. Debbono essere mescolate assieme uguali quantità di corteccia di cardamomo verde e di cannella già polverizzate in un mortaio. Si deve ora aggiungere una pari quantità di radice di zenzero fresco, insieme a qualche grano (non troppi!) di pepe nero, a qualche chiodo di garofano, a un pizzico di zafferano e a uno di noce moscata. Porre il tutto in una teiera, mescolare bene e far bollire a fuoco lento per circa dieci minuti. Successivamente filtrare, e bere come se fosse una qualsiasi tisana, dolcificando, se possibile, con miele. L’effetto – così affermano gli antichi testi cinesi – è assicurato.