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Bisogna avere paura della morte? Un grande filosofo greco, Epicuro, sosteneva di no: “Fino a che una persona vive, la morte non è; e quando la morte è, quella persona non è più”. In sostanza: perché averne paura dato che l’uomo non potrà mai averne esperienza?
In realtà, ciò di cui l’uomo ha più paura non è la morte in sé ma le sofferenze del cosiddetto “trapasso”. Da questo punto di vista ci sono però buone notizie. Le morti oggi più frequenti sono molto meno dolorose di quanto ci si immagina e la medicina è in grado di ridurre al minimo l’eventuale dolore. Il problema, semmai, è che in Italia pochi medici lo sanno fare, ancora meno lo fanno e nessuno ne parla. Mentre siamo abituati e assuefatti alla morte violenta e spettacolare (e spesso “finta”) del cinema, della cronaca televisiva o dei videogiochi, la morte vera e comune, quella che presumibilmente toccherà a tutti noi, rimane, infatti, un tabù. Perché? Forse perché non sappiamo più come veramente: capita sempre meno di vederla in casa. E non c’è nulla di più efficace dell’ignoranza per ingigantire le paure. Per questo forse è utile cercare di capire che cos’è, che cosa si prova veramente e come si può morire meglio.
Se oggi temiamo troppo la morte è soprattutto perché la conosciamo poco.
È all’origine dell’arte e della storia. In natura rappresenta il progresso. Per l’uomo moderno è “tabù”. A meno che vada in televisione…
Piacerebbe a tutti poter ignorare la morte. Ma è quasi impossibile. Perché è dappertutto. È intrecciata strettamente con la vita della natura e dell’uomo. Ne narra la storia. È l’unità di misura sulla quale si valuta l’adeguatezza della vita. È stata l’ispiratrice dell’arte, della musica, della poesia. E ancora oggi c’è un modo di rappresentare la morte, violento e spettacolare, che pur avendo poco a che fare con la morte vera, invade la pubblicità, fa vedere i giornali, riempie le scene di film e programmi televisivi.
Messaggi dal passato
L’Association for gravestone studies di greenfield, nel Mssachusset, sostiene che tutto quello che sappiamo sul passato si basa sulle iscrizioni e sui contenuti dei luoghi di sepoltura. Non è un caso quindi che con una tomba inizi la storia dell’uomo. È nella grotta Shanidar, in Iran: l’uomo di Neanderthal là sepolto su un giaciglio di frasche è in posizione fetale e la pietà dei congiunti l’ha coperto di fiori. È il primo esempio di un rito tipicamente umano, che non ha uguali neppure fra i primati più evoluti. La storia successiva è narrata dai sepolcri. Cosa sapremmo degli Egizi se non avessimo la Valle Dei re e le Piramidi? E cosa dei Micenei, o degli Etruschi, o degli imperatori cinesi? La fede nell’aldilà ha fatto deporre accanto ai defunti viveri, stoviglie, carri da guerra, armi, animali, attrezzi da lavoro che ci hanno consentito di ricostruire qual era la vita delle civiltà passate.
Ansia creativa
Ma la fede stessa nell’aldilà non esisterebbe se non ci fosse la morte. Perché le religioni nascono, secondo alcune interpretazioni, proprio della paura della morte. Ed è a queste ansie che dobbiamo gran parte dell’arte che ci circonda. Sono queste paure che hanno guidato la mano di Michelangelo mentre dipingeva il Giudizio universale, quelle di Mozart e Verdi mentre componevano i requiem, o di Dante mentre scriveva la Divina Commedia. Se non ci fosse il dolore del distacco dovremmo rinunciare anche ad alcune delle maggiori opere d’arte di tutte le culture. Ad esempio al Taj Mahal di Agra, in India, costruito nel XVII secolo dall’imperatore musulmano Shah Jahan a ricordo della moglie Mumtaz Mahal. La morte viene usata anche come unità di misura della società. Se l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) afferma che per ogni 100 mila parti muoiono sei donne in Norvegia e 1800 in Sierra Leone, è facile capire che in Norvegia le condizioni igenico – sanitarie hanno standard più elevati. E sapere che in Italia sono denunciati 4,7 omicidi ogni 100 mila abitanti contro i 24,9 dei Paesi Bassi dice che la nostra società è meno violenta.
Amici in casa
Il concetto di morte cambia col tempo. Lo ha dimostrato lo storico francese Phillipe Ariès, autore di un’attenta analisi dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti della morte dal Medio Evo ad oggi. Nell’alto Medio Evo, secondo Ariès, la morte era un evento non temuto, familiare e pubblico. Quando si annunciava, il morente non tentava di resistere: si metteva a letto e si preparava al trapasso raccomandandosi a Dio. Familiari e amici andavano a visitarlo, e la casa era aperta ai passanti.
“L’ars moriendi”
Intorno al XII – XIII secolo prende piede un nuovo modello di morte in cui l’accento è posto su ciò che accadrà dopo: il giudizio finale e la ricompensa o la punizione dell’aldilà. I corpi degli uomini illustri e dei santi vengono smembrati per fornire reliquie ai centri religiosi e la pratica è tanto diffusa da costringere nel febbraio del 1300 papa Bonifacio VIII a emanare l’editto De Sepulturis, che vietava di bollire i cadaveri per ricavarne ossa scarnificate. “Nel 1450 nasce un genere letterario, “l’ars moriendi” che sarà la lettura preferita fino al 1530″ racconta Franco Toscani, direttore dell’Istituto di ricerca in medicina palliativa Maestroni di Cremona. “Non insegnava l’arte del morire bene ma a schivare le forche caudine del demonio, pronto accanto al letto ad acchiappare l’anima del defunto. Grazie all’ars moriendi”, vicino alla morte ci si poteva presentare più tranquilli: come un esaminando che ha in tasca le domande e le risposte”.
Vittime senza peso
Poi nei secoli XVI – XVIII la religione perde gradualmente peso e la morte diventa un fenomeno naturale. Ma comincia anche ad allontanarsi dalla vita d’ogni giorno. I cimiteri, prima nei cortili delle chiese e persino nelle piazze dei mercati, vengono spostati fuori città. Da metà 900 la morte diventa ancora più nascosta, il morente viene mandato in ospizio o in ospedale. Contemporaneamente se ne esorcizza il timore riempiendo i mass-media di morti violente, fino a provocare l’assuefazione. Che peso hanno gli 1,7 milioni di morti fatti negli ultimi due anni dalla guerra che si combatte in Congo? E le 278 vittime delle strade nei week-end di luglio? “I numeri pubblicati sui giornali assumono la leggerezza delle statistiche sportive” dice Michael C. Kearl, docente di sociologia e antropologia alla Trinity University di San Antonio (Texas). “Alla morte violenta si fa l’abitudine fin da bambini, guardando la tivù”. O perfino la pubblicità. Nel ’92 negli Usa furono venduti un milione di pacchetti di sigarette della marca Death, morte. Nel ’97 comparve un’altra marca, la Blak Death (morte nera) con un teschio ghignante sul pacchetto.
Balie come ospizi
L’allontanamento della morte vera dall’esperienza quotidiana è anche frutto dei grandi successi della medicina. “Fino al 1850, 3 – 5 bambini su 10 morivano nel primo mese di vita, oggi la mortalità è dello 0.5%” spiega Pier Giorgio Crosignani, docente di Clinica ostetrica dell’università di Milano. Secondo alcuni, addirittura, l’antica abitudine di dare ai neonati a balia, lontano da casa, era un modo per evitare di affezionarsi e di soffrire se morivano. Oggi invece la morte è appannaggio dei vecchi. E allora forse non è un caso che non siano più i bambini, a essere allontanati: negli ospizi e negli ospedali.
La sofferenza non è più inevitabile. A patto che i medici…
Le malattie più comuni causano morti meno dolorose di quanto ci si immagina. E ora la medicina sa evitare sofferenze.
Quanto è brutto morire? Dipende: dalla vita che si è fatto, innanzi tutto, perché è molto più facile affrontare l’ultimo viaggio con la consapevolezza di aver raggiunto gli obiettivi che ci si era dati. Ma anche del tipo di morte e dalle sofferenze che può procurare. Oggi però è meno necessario di un tempo averne paura. Alcune delle morti più comuni non comportano sofferenze. E anche quando il dolore è un corollario della malattia, esistono ormai gli strumenti medici per renderlo sopportabile. Ecco qualche esempio.
La morsa dell’infarto
Sette morti su 10 sono dovute a due sole cause. Le malattie al sistema cardiocircolatorio (infarti e ictus) sono responsabili del 43% dei decessi e i tumori del 27,2%. La morte per infarto, per cardiopatia cronica congestizia, o per ictus non è però così dolorosa come si potrebbe supporre leggendone la descrizione medica. Inizia circa quarant’anni prima dell’ultimo respiro: gradualmente il diametro interno delle coronarie, le arterie che irrorano le cellule del cuore, si restringe, rivestendosi di placche di colesterolo. I vasi si induriscono come vecchi tubi ostruiti da depositi di calcare. Basta allora uno sforzo, o un’arrabbiatura, e le arterie malate hanno uno spasmo, che può causare una momentanea perdita del ritmo cardiaco (aritmia). In alcuni casi lo spasmo fa staccare un frammento della placca che entra in circolo e ostruisce un vaso a valle, ostacolando il flusso di sangue che irrora una zona del cuore. Le cellule cardiache, non più ossigenate, smettono di pulsare e muoiono. Se l’area di tessuto morto è vasta, può influenzare anche le aree circostanti, le cui cellule possono cominciare a pulsare a casaccio, in modo disordinato: è la fibrillazione. Non più spinto da valide contrazioni cardiache, il sangue non riesce a raggiungere il cervello. Nel paziente le sensazioni si susseguono rapidamente: oppressione all’altezza dello sterno che si estende fino alla gola e al braccio sinistro; il colorito si fa terreo, il polso irregolare, la sudorazione abbondante.
“Cadevo e la luce svaniva”
Poi il dolore al petto si fa violento, come una morsa, accompagnato da ansia a volte con nausea e difficoltà respiratorie. Se non scompare nell’arco di 10 minuti, la mancanza d’ossigeno diventa irreversibile e la parte del cuore interessata va in necrosi: è l’infarto. Ma anche le cellule del cervello stanno morendo: la vista e la coscienza si ottenebrano gradualmente, come se si spegnesse lentamente la luce. Una morte dolorosa? Nel 20% dei casi un cuore ischemico da anni cessa di battere all’improvviso, e in modo indolore. E gli altri? Chi è andato in arresto cardiaco ed è stato rianimato ha fatto descrizioni univoche: “Una sensazione non di dolore, ma di caduta. La luce si spegne lentamente, ogni azione risulta rallentata e si sente la vita fuggire via in un “pfff”, come un palloncino che si sgonfia” scrive Sherwin Nuland, ultra – settantenne ordinario di chirurgia e storia della medicina alla Yale University, negli Stati Uniti.
Rantola, ma non soffre
Lo stesso frammento scappato ad una placca arteriosclerotica può ostruire un vaso che porta il sangue ad un’area del cervello, organo le cui cellule hanno bisogno di un’enorme quantità d’ossigeno per funzionare. Alcune aree di quest’organo sono deputate alle funzioni sensoriali, e al controllo dei movimenti degli arti e degli occhi. Altre funzioni mentali superiori come la percezione, il pensiero organizzato. L’occlusione dei vasi può provocare una vasta gamma di sintomi che variano secondo l’area irrorata e la dimensione del danno. L’ictus può essere rapidamente mortale quando danneggia le aree deputate ad attività automatiche come il battito cardiaco e la respirazione. Allora il paziente cade al suolo, a poco a poco le cellule muoiono, il respiro rallenta e il cuore cerca di battere. Altrimenti il respiro si fa forte e rumoroso, l’inspirazione lunga e faticosa; spesso, proprio per la lesione cerebrale, si perde il riflesso della tosse e il velo di liquidi e muco presente in trachea trasformano il respiro in drammatico rantolo. “Ma anche in questo caso non dobbiamo lasciarci impressionare: non comporta sofferenza, il paziente ormai non è più cosciente” dice Franco Toscani.
Curare la morte
La morte de cancro è diversa da soggetto a soggetto, da un tipo di tumore ad un altro, dalla velocità della crescita del tumore, dalla diffusione della metastasi. Sono 150 mila circa gli italiani che ogni anno muoiono di tumore, ma secondo il gruppo di studio “Europo contre le douleur” solo il 20% e trattato con un’adeguata anti dolore. Ogni tumore è diverso dall’altro. Nella fase terminale dei tumori cerebrali solitamente il paziente si assopisce: è il coma. In quelli della testa e del collo le cellule tumorali ledono un grosso vaso causando un’emorragia.
Il dolore si può battere
Nei tumori di fegato e reni, organi di depurazione dell’organismo che si occupano dell’eliminazione delle materie di scarto, la morte delle cellule avviene per avvelenamento: l’azoto ureico provoca un’intossicazione generale e il paziente si addormenta; nel coma epatico aumenta la bilirubina con gli stessi effetti. E sempre il tumore può ostruire gli organi cavi, come l’intestino, rendendo impossibile un apporto adeguato di sostanze nutritive. O causare polmoniti o insufficienza respiratoria nei tumori polmonari. O diffondere le metastasi, come quello alla mammella, in organi vitali: polmoni, fegato, midollo osseo. Nella fase terminale la morte ha sempre la stessa faccia: la mancanza d’ossigeno che soffoca le cellule. Una morte dolorosa? Se lo è ancora è solo per ignoranza. “Oggi tutti i dolori sono sedabili e chi lo nega non sa usare i farmaci al momento opportuno” dice Michele Gallucci, dirigente dell’unità di cure palliative dell’ospedale di Desio, in Lombardia.
Medici impreparati
Ma i dottori seguono ancora la raccomandazione di Ippocrate di ritrarsi davanti alla morte: non è affar nostro, diceva il gran medico greco, e opporvisi è solo segno d’orgoglio, che richiama l’ira degli dei. Ancora oggi i medici seguono questa regola e spariscono dal letto del malato morente. Un questionario distribuito a 336 medici dell’Asl di Mantova e Ferrara ha rivelato che il 25% aveva pochissima esperienza nella cura dei malati terminali e il 48% un’esperienza definita modesta. Oggi però non si tratta di opporsi alla morte, ma di renderla meno penosa possibile. Secondo Edmund Pellegrino, del Center for clinical biotechics della Georgetown University di Washington “il malato non deve soffrire e ogni situazione in cui il medico non controlla il dolore in modo adeguato deve essere equiparato ad un caso di malpractice, vale a dire di cattiva condotta medica”.
In base a questa nuova etica medica i casi di cattiva condotta medica in Italia sono tanti. Uno degli indici usati dell’Oms per valutare i Servizi sanitari nazionali è il consumo pro capite di morfina, il più usato degli antidolorifici. In Italia si usano 46 dosi medie giornaliere per milione di abitanti, contro le 6430 della Danimarca, le 1462 della Francia e le 541 della Germania. Perché si combatte così poco il dolore?
Affrettare la fine
Non ci sono motivi religiosi: la chiesa cattolica non è contraria alla cura della morte. Già nel 1957 Pio XII affermava che”se il morente vi consente, è permesso usare con moderazione narcotici che addolciscono le sue sofferenze, ma che anche affrettano la morte. In realtà in questo caso la morte non è direttamente voluta, ma è inevitabile e i motivi proporzionali autorizzano a prendere misure che ne affretteranno la venuta”.
Il problema è che oggi mancano e medici preparati ad affrontare questa fase della vita umana. L’università non si è ancora accorta della necessità di una specializzazione in cure palliative, che curano cioè i sintomi per limitare al minimo il dolore.
“Gli anestetici nel corso di medicina imparano l’anestesia in funzione degli interventi chirurgici, non delle cure per rendere più facile il trapasso” accusa Toscani. “Il problema non è solo il dolore. È la nausea, il singhiozzo che dura giorni, l’ansia, la depressione, la fame d’aria. La medicina pallitiva ha inventato nuovi usi per farmaci vecchi. Usa l’aloperidolo, un neurolettico, contro la nausea, un antidepressivo, l’amitriptilina, contro l’eccesso di salivazione. Quando la fame d’aria diventa difficile da sopportare c’è l’anestesia totale. Ma bisogna fare ricerca per trovare nuove cure.
Meglio saperlo?
E coinvolgere il malato. In un recente sondaggio della fondazione Floriani, il 47% degli intervistati pensa che il malato inguaribile vada informato. “Oggi il 10 – 15 % dei nostri pazienti sa che sta morendo” dice Franco De Conno, direttore della divisione di riabilitazione e cure palliative dell’istituto dei tumori di Milano. “Ai malati consapevoli riusciamo a dare una morte migliore perché possono decidere insieme a noi come affrontare i vari sintomi”. La morte poi non estingue in modo istantaneo e globale l’attività di tutte le cellule. Il morire, dal punto di vista biologico, è un processo evolutivo che colpisce gradualmente le cellule dei diversi tessuti in base alla differente resistenza alla mancanza d’ossigeno.
Quando è irreversibile
Comunemente il momento della morte viene fatto coincidere con l’arresto del battito cardiaco. Nelle rianimazione però battito e respirazione possono essere mantenuti dalle macchine in attese che il paziente riprenda conoscenza. Il coma, infatti, ha vari gradi. Va dal sopore alla morte cerebrale. E mentre è frequente che i pazienti riprendano conoscenza dalle fasi meno profonde di coma, nessuno si è mai ripreso dall’ultimo stadio, quello del coma detto “dèpasse”.
“Grazie allo sviluppo della scienza oggi sa che la condizione necessaria e sufficiente di morte è la cessazione definitiva della funzioni del cervello” spiega Carlo Alberto Defanti, primario neurologo all’Ospedale Niguarda di Milano e membro della consulta di Bioetica.
In natura la morte è la normalità. Nel cosmo muoiono le stelle e sulla terra muoiono i biosistemi, la specie e gli individui. Morire di morte naturale non significa in genere morire vecchi, come avviene oggi per l’uomo. Ma morire giovani, preda d’animali più grandi, più forti, più veloci. Ogni morte è un contributo alla natura nel suo complesso, con le creature che si cibano di quanto è sotto di loro nella piramide alimentare e diventano preda di quelle che sono sopra. Per il progresso. In una prospettiva scientifica la morte è una tappa nel processo d’evoluzione della vita. Basta pensare ai miliardi di miliardi d’organismi deceduti e alle quattro estinzioni di massa avvenute nel corso di 500 milioni d’anni. Senza di loro la natura non avrebbe prodotto l’uomo: saremo ancora primitivi organismi unicellulari. Immortalità. Qualunque sia la morte che capita ad una forma di vita, c’è qualcosa che sopravvive. Richard Dawkings, evoluzionista britannico, sostiene che il gene è “l’unità che sopravvive passando attraverso un gran numero di corpi individuali successivi”. E conserva tracce delle vite vissute in precedenza: il gene che codifica i nostri occhi contiene ancora le informazioni che servivano, milioni di anni fa, a produrre le cellule sensibili alla luce di policheti (anellidi marini). È attraverso i geni, insomma, che arriviamo vicini all’immortalità o per lo meno lasciamo il nostro testamento biologico.
Lasciati soli di fronte all’aggravarsi della malattia e all’angoscia della sofferenza di una persona cara i parenti si rivolgono, in genere, all’ospedale. Ma non è questo il desiderio del morente. Un’indagine condotta a Cremona su malati terminali ha dimostrato che il 91% preferirebbe morire a casa.
Congedo. Seguito de chi? “Per la nascita di un bimbo la società riconosce tre mesi prima del parto fino a tre anni dopo. Per seguire l’agonia di un genitore o di un nonno malato di cancro bastano in media due mesi, ma non viene concesso neppure un giorno” precisa Michele Gallucci. “Chi non vuole delegare questo compito all’ospedale, rischia di perdere il lavoro. Eppure per la società sarebbe un grosso risparmio. Il ricovero costa 500 mila lire al giorno e per la famiglia i farmaci sono tutti gratuiti. Mentre è stato calcolato negli Usa che per morire a casa si arriva a spendere molto meno”.
In casa. Alla famiglia basterebbe il supporto dell’assistenza domiciliare fatta da un’équipe di cure palliative. Secondo gli esperti, infatti, solo il 20 – 30% delle agonie ha bisogno del ricovero nei cosiddetti “hospice” strutture specifiche che stanno sorgendo in tutta Italia.
Qual è la morte migliore? All’istituto di ricerca in medicina palliativa Maestroni di Cremona hanno deciso di studiarlo. “Stiamo raccogliendo ora i risultati dell’indagine” dice Franco Toscani, direttore dell’istituto “ed emerge già un dato: la buona morte non è necessariamente quella senza dolore. Per molti la buona morte è quella che rende la vita significativa, o che coglie alla fine di una vita piena”.
Se la vita è peggio. La seconda conclusione cui arriva lo studio è che non è tanto importante il modo in cui si muore, quei pochi attimi del trapasso, quanto i mesi e gli anni precedenti: è diverso arrivare alla morte stando bene o dopo mesi di sofferenze. Detto questo è poi indubbio che per il trapasso finale è molto meglio una morte rapida e senza dolore.
Embolia. Qualche esempio? Quella da embolia massiva polmonare, che coglie i pazienti con flebite, o chi, dopo gli interventi chirurgici, si muove per la prima volta. Un coagulo di sangue si muove, blocca la circolazione polmonare e scatena riflessi che fermano il cuore.
Emorragia. Pare che sia una “buona” morte anche quella da emorragia massiva cerebrale o da ischemia: è improvvisa, dovuta alla rottura o all’ostruzione di una grossa arteria. Non dolorose neppure le morti per aritmia cardiaca, da infarto o da coma ipoglicemico: troppa insulina fa sparire lo zucchero e causa un crollo di pressione e la mancanza di ossigenazione del cervello.
Ghigliottina. Secondo alcuni è una morte senza dolore anche quella da assideramento: si sente un po’ di freddo, ma poi passa, e la morte coglie nel sonno. Probabilmente, d’altronde, è morto bene anche Luigi XVII, il re di Francia decapitato dai giacobini nel 1789, e con lui migliaia di ghigliottinati. E una morte molto rapida, anche se, per gli esperti, quasi certamente la testa, mentre cade nel cesto, si rende conto per un secondo di essere staccata dal corpo, pur senza provare dolore. Probabilmente è senza dolore anche la morte per avvelenamento da ossido di carbonio e mancanza d’ossigeno: fa addormentare e non si sente più niente. O quella per emorragia: si è invasi da un senso di stanchezza, astenia, sonnolenza e ci si addormenta, per non svegliarsi più.
È lecito, quando la morte procura gravi sofferenze, accelerare il processo artificialmente? Il dibattito su questo problema, detto “eutanasia” (buona morte), è aperto oggi in tutto il mondo. Ci sono due forme di eutanasia; una detta “attiva”, è l’uso di mezzi propri dell’attività medica al fine di sopprimere una vita. L’altra l’eutanasia “passiva”, è il consapevole rifiuto di eseguire un atto medico indispensabile per salvare una vita in pericolo. Che cosa dice la legge. Spesso è lo stesso paziente a chiedere l’eutanasia attiva non sentendosi in grado di sopportare inutilmente atroci dolori o di essere ridotto in balia degli altri. A volte sono anche i genitori, il coniuge o il figlio che affrettano la morte del parente per non vederlo soffrire più. I giudici di solito si dimostrano clementi, anche se per la legge si tratta d’omicidio. Oggi l’eutanasia è depenalizzata, in alcune forme codificate, solo in Oregon (Usa) e Olanda.
Dispensador. Secondo molti esperti se la terapia del dolore fosse più utilizzata ci sarebbe una minore richiesta d’eutanasia. Alla quale si oppone fortemente la chiesa cattolica. Ma anche tra i cattolici ci sono pensatori che ritengono l’eutanasia attiva accettabile, come il teologo Hans Kung. In altre culture è accettata da tempo. Tra gli Hichol del Messico il “dispensador”, colui che somministra la morte, è il parente più prossimo. Tra gli Indios Bororo del Mato Grosso il vecchio che si sente inutile esige che sia il figlio a dargli la morte.