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NEI PRIMI SECOLI DEL MEDIOEVO, SOPRAVVIVE TUTTA UNA SERIE DI CREDENZE PAGANE E PRATICHE DIVINATORIE CONTRO LE QUALI A POCO VALEVANO ANCHE GLI APPELLI DEI VESCOVI
Dallo scontro con la tradizione religiosa di Roma la nuova fede uscì definitivamente vittoriosa verso la fine del IV secolo. Tuttavia, il culto ufficiale dell’impero non era l’unico e tanto meno il più forte ostacolo alla piena evangelizzazione: il sincretismo pagano aveva condotto a una localizzazione dei culti, che si erano profondamente radicati nelle province dell’Impero, sovrapponendosi e mischiandosi alle tradizioni precedenti. Al di fuori delle città, delle grandi direttrici di comunicazione, vi era la realtà di campagne e aree montane in cui l’innovazione penetrava a fatica, e dove soprattutto si conservava memoria di culti e tradizioni che nei grandi centri erano magari già dimenticati. La religiosità delle ragioni marginali si radicava su luoghi fisici (monti, foreste, sorgenti, fiumi, confini e così via) e sui ritmi tradizionali (nascita, morte, nozze, raccolto) con i quali si viveva a stretto contatto e da cui sovente si dipendeva: da questo derivava il conservativismo, favorito da strutture mentali vecchie di secoli e forse di millenni, e la pratica tendenza a un sincretismo che accoglieva il nuovo senza per questo rinunciare al vecchio. Era arduo per i propagatori e i ministri della nuova fede spiegare che il Dio dei cristiani pretendeva un culto assoluto, per il quale si doveva rinunciare alle vecchie divinità e a quelle tradizioni che avevano accompagnato le comunità sino ad allora.
A OGNI ALBERO IL SUO DIO
Per quanto concerne la sacralità dei luoghi, la letteratura antica offre ampie testimonianze, come quella in cui Plinio il Vecchio parla della dedicazione degli alberi alle divinità. Alcune specie arboree erano oggetto di continua protezione, in quanto dedicate ognuna a una sua propria divinità: il farnetto a Giove, l’alloro ad Apollo, l’olivo a Minerva, il pioppo a Ercole. Alcune dedicazioni di luoghi particolari a certe divinità sono ben note. Si trattava di solito di boschi, di monti, di fiumi: come il sacro bosco di Nemi, il Monteluco presso Spoleto, il locus Angitiae del Fucino o le Fonti del Clitunno. Ma mille altri dovevano essere i luoghi, ignoti a tutti se non alle ristrette comunità che vi vivevano intorno, dedicati a qualche divinità o provvisti di qualche nume tutelare.
Oltre alla “desacralizzazione” del mondo naturale, il cristianesimo comportava quello dell’universo temporale. Nell’organizzazione del calendario romano il tempo era originariamente contrassegnato dal ciclo lunare: dies fasti erano quelli in cui era consentito l’agire quotidiano e usuale, dies nefasti quelli in cui esso non era invece opportuno. Tuttavia, i giorni nefasti non erano sempre sacri; si consideravano sacri sol quelli consacrati a una divinità da cui prendevano il nome. Scrutare il corso lunare era il compito di un pontifex: a lui competeva l’organizzazione calendariale e la convocazione dell’assemblea (kalendae) in cui si proclamavano i giorni in cui sarebbero cadute le Idi e le None.

RITMI STAGIONALI
A partire dalla riforma calendariale condotta sotto il Principato di Cesare, però, Calende, Idi e None vennero fissate una volta per tutte in forma scritta, sulla base di un mese solare, e dunque scisse dall’osservazione del pontifex. Con tutta probabilità, la riforma avviò – o comunque assecondò -un processo di occultamento del significato sacrale del calendario arcaico, che tuttavia rimase ben vivo, col suo corredo di feste e di celebrazioni di divinità legate ai momenti “forti” dell’anno, nella mentalità religiosa tradizionale e nelle aree più conservatrici. I ritmi stagionali del lavoro agricolo contribuiranno senza dubbio al mantenimento di questa memoria tradizionale, che solo la rivoluzione industriale avrebbe messo in crisi.
Non si deve infine dimenticare l’intricato sottobosco di credenze che poco avevano a che spartire con la religiosità istituzionale, ma che ebbero un peso nella mentalità dei secoli a venire: ci riferiamo alle idee e alle pratiche di tipo “magico – superstizioso” di cui gli autori antichi ci forniscono- spesso con intenti critici – numerose notizie.

SALVATE LA LUNA!
I vescovi svolsero un ruolo importante nella diffusione e nel radicamento del cristianesimo nei centri urbani; nella seconda metà del IV secolo a Torino il Vescovo Massimo compose diversi sermoni che molto dicono intorno alla situazione religiosa della diocesi; in particolare, egli rivolgeva ripetuti richiami ai fedeli affinchè cessassero di celebrare le cerimonie “superstiziose” che avevano luogo in occasione delle eclissi lunari. Si trattava di una pratica nota come “Vinceluna”, durante la quale si riteneva di poter soccorrere l’astro e ripristinare il corretto avvicendarsi dei cicli temporali con urla e schiamazzi.
I concili vescovili, che ebbero luogo a partire dai secoli IV-V, non mancano di segnalare con insistenza la necessità di sradicare gli usi pagani: si menzionava la venerazione per alberi, fonti e rocce, probabilmente consacrati in passato a qualche divinità; si condannavano quanti, anche battezzati, continuavano a sacrificare alle divinità dei pagani. Appaiono frequenti anche le proibizioni all’attività di sortilegi, auguri, arioli e incantatores; molto accentuata risulta anche la condanna delle cosiddette sortes apostulorum o sanctorum, nelle quali erano sovente coinvolti i clerici. Esse consistevano in un apertura casuale dei vangeli: i passi che apparivano avrebbero dovuto guidare in certe decisioni.
Di fronte a molte di queste testimonianze è lecito domandarsi cosa i dotti ecclesiastici cogliessero della natura e del contesto dei fatti denunciati. Sappiamo che la maggior parte di queste denunzie si ritroveranno pressoché immutate ancora per secoli: segno del radicamento di tradizioni sempre uguali a se stesse, o non piuttosto del peso che la tradizione esercitava, facendo sì che il riprendere gli stessi testi per descrivere realtà anche diverse – e magari difficilmente comprensibili perché culturalmente lontane – risultasse in fondo del tutto naturale?

ANCHE SAN FRANCESCO CI CREDEVA (Appendice)
A proposito delle sortes apostolorum è noto un episodio – narrato nella seconda Vita di San Francesco scritta da Tommaso da Celano – in cui lo stesso Francesco fa ricorso a tale pratica: apre a caso tre volte il Vangelo e dal primo verso che appare trae un responso sull’azione da intraprendere; il sospetto che la triplice apertura del vangelo potesse in qualche modo essere, se non qualcosa di simile a un rito magico, quanto meno una superstizione, è presente nelle prime fonti francescane: infatti il testo noto come Leggenda dei tre compagni si affretta a precisare – e a giustificare – che la triplice apertura del libro si comprende in Francesco in quanto egli è “vero adoratore della Trinità”.

L’INTERPRETAZIONE DEI SEGNI
In altre parole, quando i legislatori adottarono termini quali auguri, sortilegi o arioli, è probabile che essi stiano piegando concetti propri del paganesimo classico romano a realtà ormai propriamente mutate. Per esempio, il collegio degli auguri che operava a Roma aveva il compito di interpretare la volontà degli dei attraverso i signa che si ritenevano inviati da questi agli uomini: si trattava di una disciplina assai cara alla storia e al mito delle origini di Roma, in quanto Romolo e Remo erano stati i primi a interpretare il volo di uno stormo di uccelli come un assenso divino alla fondazione della città. Si sa che Cicerone aveva dedicato un’opera intera, oggi andata perduta, alla disciplina degli auguri; tuttavia, già al suo tempo circolavano auguri, non appartenenti al collegio ufficiale, che immettevano nella disciplina elementi estranei alla tradizione romana. È quindi probabile che, a distanza ormai di secoli e in un contesto di disgregazione della vecchia religione romana, i legislatori cristiani, parlando di auguria, intendessero riferirsi alla credulità di quanti interpretavano gli eventi quali segno di fortuna/sfortuna. Nella tradizione della Roma antica, hariolus era correttamente traducibile come”indovino”. Tuttavia, nel latino medievale si perse i significato originario del termine, che prese ad essere inteso come un più generico “operatore” di arti magiche: ed è in questo senso che, presumibilmente, lo utilizzano i nostri testi.

RESPONSI NELL’URNA
Anche sortilegium era impiegato in origine per indicare una particolare pratica divinatoria. Le sortes, tavolette o bastoncini recanti un responso, si estraevano da un pozzo o da un’urna. Tuttavia, è evidente che fra i secoli V e VI la tradizione oracolare ufficiale era scomparsa da tempo. Si può immaginare che il termine potesse invece indicare qualche generica forma di divinazione. Diverso il discorso per le sortes apostolorum o sanctorum, talmente diffuse a partire dai primi secoli dell’Alto Medioevo da sovrapporsi nel tempo a ogni altro genere di sortes. La tradizione ecclesiastica più colta, a partire da Sant’ Agostino, la condannava all’unanimità. Al contrario, al pratica quotidiana dei fedeli le interpretava come un modo legittimo di rimettersi alla volontà di Dio; al punto che San Martino, secondo quanto narrato da Sulpicio Severo, fu scelto come vescovo di Tours attraverso tale pratica.
A cavallo fra i secoli V e VI sono però i sermoni del Vescovo Cesario d’Arles a offrire il quadro più esaustivo delle credenze e delle pratiche non ortodosse comunemente seguite. Nelle omelie di Cesario, per esempio, si fa riferimento alla fabbricazione e all’uso di phylacteria, parola greca derivante da phylax (guardiano, custode) e dai Latini tradotta amolimenta o amoleta(dal verbo aboliti, cioè allontanare) da cui il nostro amuleti. Presso gli ebrei gli omologhi tefillim erano costituiti da lamine o strisce membracee che venivano portate al collo o al braccio sinistro, su cui apparivano brani delle Sacre Scritture. Nel pieno Medioevo i phylacteria erano spesso designati col nome di brevia e consistevano in genere in una striscia di carta o di pelle con impressi una formula o alcuni caratteri “segreti”; per mantenere intatto il loro potere magico – apotropaico non dovevano essere aperti né profanati.

I MEZZI DELLE DONNE
Altrove Cesario si sofferma sui mezzi magici di cui le donne si servivano, piuttosto che affidarsi alla preghiera, per ottenere i concepimento; a tal fine usavano “erbe” – che fanno supporre l’uso di una medicina naturale – accompagnate da “caratteri” o da “legature”, probabilmente sul tipo degli amuleti e dei filatteri, che ci riportano in un contesto più propriamente magico. Ciò che i canonisti e i predicatori condannavano, comunque, non era i ricorso alla medicina naturale, quanto piuttosto la commistione con rituali a carattere magico. Ben più grave, ovviamente, il giudizio di Cesario su coloro che confezionavano filtri per abortire. Le pozioni sono definite “sacrileghe” non tanto per il loro contenuto di erbe “magiche”, quanto piuttosto per le finalità con cui venivano usate.
In altre omelie Cesario parla di persone battezzate che annullavano il valore del sacramento ricevuto continuando a svolgere culti pagani, quali i voti resi ad alberi, fonti e antichi santuari, cui si aggiungeva la pratica dei banchetti rituali. Si ha quindi l’impressione che il vescovo di Arles non dovesse fronteggiare solo la persistenza dei costumi pagani, ma anche un rifiuto, o quantomeno un’indecisione, da parte di popolazioni abituate a una religiosità di tipo sincretico, verso l’accettazione di una fede strettamente monoteistica qual è quella richiesta dall’adesione al cristianesimo. Impressione confermate, seppur indirettamente, da un altro sermone contro le sfrenate celebrazioni per le calende di gennaio, in cui Cesario passava in rassegna le divinità del paganesimo classico (Marte, mercurio, Giove, Venere, Saturno) per evidenziarne i caratteri lascivi, empi e sacrileghi.

IL PATTO COL DIAVOLO (Appendice)
Il tema del patto fra l’uomo e il diavolo apparve e si diffuse per la prima volta nell’Europa Occidentale nei secoli centrali del Medioevo. Nel X secolo la colta monaca Rosvita scrisse – riprendendo una tradizione di origine greca – la storia del diacono Teofilo. Caduto in disgrazia presso il suo vescovo, Teofilo non esitò a firmare con il suo sangue, aiutato da un ebreo esperto in arti magiche, un patto col demonio, cui vendette l’anima in cambio del potere, come farà molti secoli dopo il Faust di Goethe. IN Occidente il patto tra Teofilo e il demonio veniva spesso rappresentato come un omaggio feudale, quell’atto che poneva di fronte il signore e il suo vassallo in un reciproco giuramento di fedeltà. Trattandosi di un atto rituale considerato di grande valore, appare evidente come l’utilizzarlo in questo particolare contesto dovesse servire a suscitare sdegno e angoscia. Il patto fra l’uomo e il diavolo non ha mai cessato di affascinare l’immaginario europeo, forse perché la volontà di potenza e di conoscenza spinta fino alle estreme conseguenze è uno dei pilastri fondanti della nostra società. A partire dai primi decenni del Novecento l’interesse per la presenza del demonio nella società è stato espresso da alcune pellicole, importanti perché proseguivano attraverso il nuovo medium la tradizione del tardo Romanticismo e del primo Espressionismo tedeschi. Molti riprendevano proprio il tema del patto col diavolo: l’opera più significativa è il Faust (1926) di Friedrich W. Murnau, che si inseriva nel clima dei grandi capolavori dell’Espressionismo quali Il Golem di Galeen – Wegener – Rye (1914), Il Gabinetto del Dottor Caligari (1921-22) e M il mostro di Dusseldorf (19319 di Fritz Lang; fonte principale d’ispirazione era Goethe, ma sono presenti anche forti richiami a Marlowe e alla tradizione folclorica germanica,nonché ai melodrammi di Gounod e Berlioz.

IL TRATTATO DEL VESCOVO MARTINO
Poco più tardi ,nella seconda metà del VI secolo, nella diocesi di Braga (corrispondente alla regione oggi compresa tra il Portogallo settentrionale e la Galizia) il vescovo Martino componeva un trattato Sulla correzione dei rustici: egli predicava tra le popolazioni rurali fortemente legate, a quanto sembra, a tradizioni di origine precristiana. Egli segnala e condanna la pratica di “incantare” le erbe e invocare i nomi dei demoni (probabilmente le divinità precristiane) per compiere malefici; riferiva inoltre circa le credenze “superstiziose” legate al calendario romano e alle festività d’inizio d’anno, come i Vulcanalia e le Kalendae,la persistenza delle divinazioni e quella degli auguria. Infine, Martino sottolineava la presenza di vere e proprie sopravvivenze del paganesimo e delle sue divinità, alle quali le genti di queste regioni ancora sacrificavano.
L’età carolingia doveva portare a un rinnovamento della pastorale, inserito nella più vasta azione di riconsiderazione delle strutture istituzionali ecclesiastiche voluta da Carlomagno. Nel Concilio di Tours del 813, per esempio, si disponeva che ogni vescovo dovesse tenere omelie sui fondamenti della fede nella lingua volgare del popolo cui predicava, al fine di facilitare la comprensione della dottrina cristiana anche ai molti che non conoscevano il latino.

UN TESTAMENTO SPIRITUALE
Le testimonianze anche più tarde di vescovi ed evangelizzatori continuavano comunque a mostrare la forte persistenza di pratiche “magico – superstiziose”. Nel IX secolo Agobardo di Lione rendeva una chiara testimonianza circa la sopravvivenza delle pratiche di magia tempestarla, volte cioè a preservare con rituali specifici la fertilità dei campi e l’abbondanza dei raccolti. Nel secolo successivo un vescovo di Verona, il dotto Raterio, nei suoi Praeloquia denunziava le pratiche di magia popolare intrise di credenze magiche, al pari delle superstizioni inerenti ai tempestarii.
In un area culturalmente lontana, la Calabria di forte influenza greco – mediterranea, un altro vescovo, Luca di Bova (sec. XI), ormai anziano, componeva una specie di testamento spirituale in greco, in cui testimoniava i suoi decennali affanni per predicare contro i costumi superstiziosi dei suoi fedeli: “Per quarantacinque anni [..] mi sono affannato nelle radunanze e nelle feste, e la mia gola si è logorata proprio nel mio continuo affannarmi a lottare contro i costumi dei greci e dei figli di Agar: i blasfemi lamenti sui morti, il gemere e far lamento irragionevolmente per le strade e sulle tombe[..]; nelle nozze e nei banchetti e il gridare al suono dei timpani e dei flauti e delle danze [..] e tutta la notte far gozzoviglie e ubriacarsi.[..]. L’incoronare di lauro i protiri delle case,delle chiese e dei quartieri;[..] l’inghirlandarsi cinti di spada e avanti alle porte di casa, così come usavano i pagani, aspergersi di sementi diverse; [..]macinare il grano e fare il pane al suono delle raganelle[..], mescere birra e declamare volgarità e frizzi..”

TUTTE LE VIRTU’ DELLE PIANTE (Appendice)
Il mondo medievale ereditava un bagaglio di miti e di riti relativo all’attivazione elle proprietà e delle tecniche di raccolta di talune specie vegetali dal mondo romano e, attraverso questo, indirettamente da quelli greco e orientale. Altre conoscenze relative alle virtù mitiche delle piante provenivano agli uomini dell’ Alto Medioevo dalla Bibbia; altre ancora dal mondo celtico e germanico, con il quale i missionari cristiano – latini erano venuti in contatto ; esse costituivano il “substrato”di quella che si andava configurando come la cultura folclorica dell’Europa Occidentale.
Nella Bibbia si trovavav naturalmente giustificazione sia per l’uso terapeutico sia per quello magico delle piante. La tradizione esegetica del Genesi forniva da sola amteria per piegarsi sui misteri delle piante e delle loro provvidenziali virtù. Se nel passaggio del mondo mediterraneo dal paganesimo al cristianesimo taluni aspetti della considerazione della natura potevano essere mutati, e in particolare alberi e selve, un tempo dimora di divinità e luoghi di culto, potevano esser guardati ora come ricettacolo di demoni, il libro del Genesi restava garante di una natura fondamentalmente buona e amica dell’uomo nonché di un potere in origine concesso a questo su quella. Certo, il potere delle erbe non era assoluto: ben a ragione Cassiodoro raccomandava ai monaci di Vivarium di non porre in esse la loro speranza; ma al tempo stesso si preoccupava di esortarli allo studio di Dioscoride, di Galeno, di Celso, di Ippocrate, di Gargilio Marziale e di tutti gli latri testi che essi avrebbero potuto trovare nella loro ricchissima biblioteca; e nella tradizione monastica lo studio e la coltivazione delle erbe salutari sarebbero divenute attività tradizionalmente ritenute indispensabili. Non si trattava soltanto di mantenere odi recuperare la salute: si trattava anche di riflettere sull’intima rispondenza tra tutte le cose del creato; sull’armonia che regnava tra i pianeti, le piante, i metalli e l’uomo stesso. Le biblioteche monastiche altomedioevali ebbero una fondamentale funzione nel diffondere le conoscenze contenute negli erbari bizantini e italo- meridionali. Si perse invece nell’Occidente altomedioevale, o gli pervenne per frammenti, quella sapienza specificamente ermetica che, nella bassa latinità, aveva fatto la sua comparsa in autori come Galeno e, nel V secolo, Olimpiodoro: in essa figure simboliche, pianeti, metalli, animali e piante venivano considerati in parallelo, per gruppi analogici e nei loro rapporti con l’uomo; una sapienza che sarebbe tornata all’Occidente a partire dal XIII secolo e che si sarebbe mostrata negli scritti di Carlomagno e nei molti apocrifi che sotto il suo prestigioso nome circolarono. 

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